Intervista al prof. Carlo Ossola sulla traduzione italiana del romanzo di Ulas Samchuk, “Maria”

È il 1932: sull’Ucraina si abbatte una carestia insanabile, causata e imposta dalla dissennata politica del regime sovietico di Stalin di quegli anni. Gli Ucraini sopravvissuti scelgono una sola parola per ricordarla: Holodomor, letteralmente «infliggere la morte mediante la fame». Mentre il riconoscimento di quei fatti come genocidio contro il popolo ucraino rimane oggetto di un dibattito acceso ancora oggi, dalle pagine della storia e dal buio di quegli anni emerge una straordinaria testimonianza: è Maria, romanzo di Ulas Samchuk, per la prima volta tradotto in italiano grazie al lavoro della dott.ssa Mariia Semegen, già studentessa presso l’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. In attesa di giovedì, quando al Centro Lugano Arte e Cultura (LAC), alle ore 18, il romanzo verrà presentato al pubblico, abbiamo posto al prof. Carlo Ossola, curatore del volume, qualche domanda.

Prof. Ossola, nella premessa al libro accenna agli anni di fondazione dell’Istituto di Studi italiani presso l’USI, durante i quali giunsero per studiare in Ticino diversi studenti da “zone calde” del mondo, luoghi di guerre insanguinate. A loro chiese di «tradurre in italiano il testo più caro alla loro libertà». Può raccontarci come è nato il progetto di una traduzione italiana dell’opera di Samchuk e l’intento con il quale essa viene proposta?

A titolo di sostegno per il neonato Istituto, la Confederazione Elvetica destinò ad esso delle borse di specializzazione biennale, affidate a giovani studiose di grande talento: dal Vietnam, dall’Armenia, dalla Ucraina. Ciascuna di esse tradusse un capolavoro della tradizione recente del loro Paese, testimone di libertà; tutti sono stati pubblicati. Per  gli echi del genocidio armeno: Eghisce Ciarenz, Paese Nairì, traduzione di Hasmik Vardanyan, Ibiskos Ulivieri, Empoli 2013; per l’insanguinata storia vietnamita: Vũ Trọng Phụng, Il gioco indiscreto di Xuan, traduzione e note di Thuy Hien Le, O barra O, Milano 2012; ed ora Ulas Samchuk, Maria. Cronaca di una vita, traduzione di Mariia Semegen, Edizione Clichy, Firenze 2022.

Nell’introduzione al volume ricostruisce, assieme alla traduttrice, la dott.ssa Mariia Semegen, la cronologia terribile dei fatti accaduti negli anni Venti del Novecento, spiegando come, per volontà di Stalin, gli ucraini «rimasero isolati dal mondo insieme alla loro tragedia». Cosa emerge, di quello che si sapesse o non si sapesse già di quei fatti drammatici, nelle pagine di Samchuk? Con quale taglio narrativo l’Autore decide di affrontare il tema?

L’autore, uno dei classici del Novecento in lingua ucraina, sceglie un arco lungo di narrazione: esso  parte dunque dagli anni Sessanta del XIX secolo, dal 1861, l’anno delle speranze contadine, legate all’abolizione della servitù della gleba, proclamata da Alessandro II; un inizio il cui tono idilliaco quasi non s’intende se non sullo sfondo di quell’anelito di lavoro e libertà. La parte centrale disegna invece l’irrompere degli effetti della Rivoluzione d’Ottobre (1917) nella vita quotidiana, sullo sfondo tragico della Prima guerra mondiale: «Fu l’indimenticabile 1914. Suonarono le trombe, nitrirono i cavalli, le mamme e le spose scoppiarono a piangere». Alle privazioni della guerra s’aggiunse la Rivoluzione: il 4 marzo 1917 a Kyiv fu proclamata l’istituzione della Rada Centrale (Consiglio Centrale) che inizialmente doveva governare un’autonoma Repubblica Ucraina all’interno della Russia federale democratica. Il 22 gennaio 1918, la Rada Centrale proclamò uno Stato ucraino sovrano – la Repubblica Popolare Ucraina – che fu riconosciuta anche a livello internazionale. Cominciarono così burrascosi e sanguinosi anni per l’Ucraina che oggi la storia descrive come guerra civile o come guerra ucraino-moscovita. La guerra terminò con la sconfitta della Repubblica Popolare Ucraina e con l’occupazione bolscevica del Paese.

L’Autore descrive Maria, la protagonista da cui deriva anche il nome del romanzo, con molta precisione. Con un’avidità di vivere e una tenacia che parevano «appartenere solo a una vera combattente per la vita», ad esempio, si nutre del latte materno, mentre «nel suo corpo si compivano dei grandi misteri». Di quale messaggio si fa portatrice Maria?

È il ritratto di una donna, del primato della vita e della speranza sulla morte: nondimeno anch’essa cede, esausta, alla fine del romanzo per la terribile carestia; si spegne silente come un lumicino, come la Félicité dei Trois contes di Flaubert. L’autore del resto dedica, in esergo, il romanzo «Alle madri uccise dalla fame in Ucraina negli anni 1932-1933».

Personalmente, c’è un aspetto del testo di Samchuk che l’ha colpita più di altri e che lo rende, pur nella sua durezza, particolarmente apprezzabile?

Affascinante è l’epica corale intorno a L’Église et le village, direbbe Gabriel Le Bras e, prima di lui, l’Oblomov di Gončarov: la vita che trascorre con le stagioni, i lavori dei campi, ritmata dalla Natura, dalle grandi feste liturgiche, dalle nascite, dai matrimoni, dai pranzi rituali. In quest’ordine sobrio e perenne, irrompe la sete di potere, che tutto guasta.

Maria non vide la fine degli orrori denunciati, né noi, al momento, sappiamo quando vedremo finire la guerra in corso tra Ucraina e Russia. Troviamo nel libro una via di superamento del dolore o per i suoi personaggi tutto è solo e soltanto sofferenza?

In verità, il finale della parabola può ricondurci al Ciclo dei Vinti di Giovanni Verga, alla perenne sofferenza di Giobbe, all’inestirpabilità del male. E tuttavia tutta la prima e la seconda parte del romanzo non è che un continuo rinascere, un’attesa della primavera: «Era primavera, fiorivano gli alberi, cantavano gli uccelli e vaporava la sudata terra nera. Ogni giorno il sole si alzava e tramontava. I fiori degli alberi cadevano come piume, toccavano terra e sparivano. Sui rami nascevano i primi frutti, mascheravano i segni della nascita, crescevano e maturavano velocemente. Il sole lavorava senza sosta. Mandava pioggia e nuvole ispide, spruzzava l’acqua, lanciava tuoni e stendeva l’arcobaleno variopinto da una parte all’altra del cielo. […] I campi pieni di grano s’inclinavano come dei monaci nell’ora della preghiera». Il grande canto di lode dell’universo.

Nella premessa dà anche una definizione della presente vicenda ucraina come «spazio che rimane del dolore di essere uomini». Ma già nel suo libro, Europa ritrovata (2017), facendo proprie le parole di Joseph Roth, aggiungeva a questa significativa definizione quella di Leopoli come «città dai confini annullati». Potrebbe tornare brevemente su queste due definizioni? E quale potrebbe – o dovrebbe – essere il ruolo di questa “Europa ritrovata” nel conflitto in corso?

Nel libro Europa ritrovata, che ricorda e che contempla una città soltanto per ogni Paese visitato, vi sono due città ucraine: Leopoli e Odessa, per la pluralità e la ricchezza della loro storia, per l’intreccio di culture che le animano. Oggi questo esodo e queste migrazioni ci riportano a una struggente poesia di Adam Zagajewski, Andare a Leopoli: «Sta a noi cancellare i confini,  costruire e custodire la nostra Leopoli: «[…] e ora, ma in fretta, / fare i bagagli, sempre, ogni giorno, / e andare senza fiato, andare a Leopoli, / eppure esiste, quieta e pura come / una pesca. Leopoli è ovunque».

Scena straziante del romanzo è la morte del figlio di Maria. Nella scena si rincorrono echi biblici e invocazioni a Dio. Di fronte alla morte del figlio, le viene ad esempio consigliato di rivolgersi alla madre di Cristo, «Madre di tutte le madri». Al contempo l’eco dei Salmi invita a un calmo e fiducioso affidamento. C’è spazio per un autentico senso del divino e del mistero nel romanzo di Samchuk?

Certamente, tutta la vita di Maria e del villaggio ruota intorno a un credere naturale, fatto di amore, di lavoro, di rispetto del mistero divino. Il racconto è suddiviso in tre grandi sezioni: Il libro della nascita di MariaIl libro dei giorni di Maria e Il libro del pane; un trittico che ricorda il rilkiano Libro d’ore, anch’esso ripartito nel Libro primo, della vita monastica, nel Libro secondo, del pellegrinaggio, nel Libro terzo, della povertà e della morte: «Signore, siamo più poveri delle povere bestie / che muoiono della loro morte…».

Perché, infine, è importante “fare memoria” a partire dal romanzo di Samchuk, in molte parti del mondo autore ancora sconosciuto?

La memoria è il primo custode  della verità.

Grandi scrittori russi furono in realtà ucraini, come Gogol’ o Michail Bulgakov, perseguitato dal regime ma amato (un paradosso!) da Stalin. Anche Putin si definisce ammiratore di Taras Ševcenko, il poeta nazionale ucraino. Potrebbero letteratura e arti dare un contributo decisivo alla ricostituzione di un senso di fratellanza?

In Tutto scorre… Vasilij Grossman, anch’egli scrittore ucraino, osserva, e sarà anche la nostra conclusione: «Per grandiosi che siano i grattacieli e potenti i cannoni, per illimitato che sia il potere dello Stato e possenti gli imperi, tutto ciò non è che fumo e nebbia, destinato a scomparire. Rimane, si sviluppa e vive soltanto la vera forza, che consiste in una sola cosa – nella libertà».

Laura Quadri